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Cosa intendiamo quando parliamo di relazione d’aiuto?
Da venticinque anni mi
chiedono di assistere, aiutare, famiglie all’interno delle quali è presente un
figlio con disabilità intellettiva e relazionale.
Figli che non hanno avuto
modo, per i più svariati motivi, di poter crescere ed esprimere pienamente ciò
che permette loro di autodeterminarsi, rendersi autonomi ed emanciparsi dalla
famiglia; adolescenti che non sono riusciti a conferire una struttura al loro
essere in uno spazio e in un tempo che tutti noi, invece, condividiamo “senza
ormai più pensarci”; persone nei cui confronti è vitale assicurare un
accudimento: quello naturale, di cui ha
bisogno un neonato, un bambino, ma che
nei soggetti affetti da autismo va garantito per tutta la vita.
Una vita, quella delle
famiglie coinvolte, senza poter prevedere e programmare niente, caratterizzata
da una routine priva di relazioni e vita sociale.
Pertanto, come costruire
una relazione d’aiuto?
Quali, allora, le azioni da
mettere in campo per fornire un contributo determinante al fine di elevare le
autonomie del “disabile” e alleviare il peso gravante sulle famiglie,
letteralmente modellate sulla
“patologia” presente al loro interno?
È possibile invertire la
rotta, concretare nuove prospettive pilotando tutti i componenti del “sistema
famiglia” su livelli di “equilibri sulla sofferenza” più sostenibili, ariosi,
vivibili?
Come condurre un intervento
educativo, una relazione d’aiuto?
Quali sono i presupposti,
le prerogative, le azioni, gli atteggiamenti da intraprendere onde assicurare
un vero, onesto e corretto aiuto?
Sussiste una “situazione
originaria” alla base del rapporto tra “aiutante” e “aiutato” da tenere in
considerazione per partire con il piede giusto e, quindi, garantire al secondo
una relazione che possa permettergli di esprimere al meglio e pienamente le
proprie potenzialità, la ricchezza e unicità del proprio essere?
Si può fare. Si deve
fare.
Servono onestà
intellettuale ed emotiva.
La missione d’aiuto deve
essere caratterizzata da una consapevolezza iniziale ben chiara su cosa stia
accadendo e quale sia il primo scenario da affrontare.
Mettere in campo tutte
quelle strategie, quelle modalità di
contatto che portino a eliminare, ribaltare, la prima “scena relazionale”, il
primario rapporto che è insito nella logica aiutante/aiutato, di chi ha il
compito di aiutare e di chi ha bisogno di essere aiutato.
Il naturale stato di “soggezione” tra i protagonisti della relazione di aiuto
va riequilibrato.
Come mutare radicalmente
questo scenario iniziale? Rendendo “attivo” chi ha bisogno d’aiuto,
concedendogli la possibilità di “esprimere” il personale modo di vivere la
realtà, con il linguaggio che gli è
proprio, e consentendogli l'estrinsecazione di ogni potenzialità (il più delle
volte inespressa se non addirittura sepolta da anni di “iper-assistenza
preventiva” da parte di genitori onestamente preoccupati e sfiniti per tutto
ciò che comporta avere un figlio “disabile intellettivo e relazionale”,
soprattutto in rapporto con il “mondo” esterno alla famiglia).
Anni di visite, diagnosi,
terapie (di ogni sorta) senza alcun vero contatto “relazionale”, sana
comprensione, ascolto attivo, possibilità di restituzione della vera natura
della propria realtà, si accompagnano troppo spesso al sentirsi persi nella
logica delle colpe.
Per cui, prima di mettere
in campo le “attività”, “qualità” relazionali , è necessario partire da ciò
che, a mio avviso, NON SI DEVE FARE.
Innanzitutto, quindi,
eliminare tutti quegli interventi che, invece di rimuovere la naturale
“soggezione” dell’“aiutato”, la rimarcano (con conseguente incremento degli
ostacoli inibenti la libera espressione di se stesso).
Ma, anche, costruire un
rapporto che permetta all'“aiutato” di aprirsi a una realtà degna di essere
affrontata con sempre maggior fiducia e ottimismo, perciò cancellando ogni
aspetto della relazione ottundente il contatto con il mondo.
Ho coniato la definizione di
TRIPLA A.
“AAA”, intesa come
A-ccoglienza, A-ttenzione, A-scolto: tre pilastri di un tavolo relazionale che
si regge, appunto, su tre gambe.
In mancanza di una di
queste prerogative, la relazione, il tavolo, cadrebbe inesorabilmente.
Quali le risposte da non
dare, gli atteggiamenti da evitare, per mettere l’altro nella condizione
di “aiutarsi”, rendersi sempre più
autonomo e capace di prendere decisioni più sane e rivolte al proprio
benessere?
Non consolare.
Non consigliare.
Non giudicare.
Non interpretare.
Non inquisire, investigare.
Tutto ciò rimarcando,
ancora una volta, che la soggezione iniziale tra le due parti
(aiutante/aiutato), non permette di aprire le porte alla valorizzazione delle
soggettive risorse presenti in ogni persona.
Rispettare il personale
rapporto con il mondo, Accogliere, porre Attenzione, Ascolto.
Partire dall’altro e non da
se stessi.
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