martedì 26 settembre 2023

LA RELAZIONE D'AIUTO. NON SOLO EMPATIA.



GIOVANNI TOMMASINI SU AMAZON

 Cosa intendiamo quando parliamo di relazione d’aiuto?

 

Da venticinque anni mi chiedono di assistere, aiutare, famiglie all’interno delle quali è presente un figlio con disabilità intellettiva e relazionale.

Figli che non hanno avuto modo, per i più svariati motivi, di poter crescere ed esprimere pienamente ciò che permette loro di autodeterminarsi, rendersi autonomi ed emanciparsi dalla famiglia; adolescenti che non sono riusciti a conferire una struttura al loro essere in uno spazio e in un tempo che tutti noi, invece, condividiamo “senza ormai più pensarci”; persone nei cui confronti è vitale assicurare un accudimento: quello  naturale, di cui ha bisogno un neonato, un bambino,  ma che nei soggetti affetti da autismo va garantito per tutta la vita.

Una vita, quella delle famiglie coinvolte, senza poter prevedere e programmare niente, caratterizzata da una routine priva di relazioni e vita sociale.

 

Pertanto, come costruire una relazione d’aiuto?

 

Quali, allora, le azioni da mettere in campo per fornire un contributo determinante al fine di elevare le autonomie del “disabile” e alleviare il peso gravante sulle famiglie, letteralmente  modellate sulla “patologia” presente al loro interno?

È possibile invertire la rotta, concretare nuove prospettive pilotando tutti i componenti del “sistema famiglia” su livelli di “equilibri sulla sofferenza” più sostenibili, ariosi, vivibili?

Come condurre un intervento educativo, una relazione d’aiuto?

Quali sono i presupposti, le prerogative, le azioni, gli atteggiamenti da intraprendere onde assicurare un vero, onesto e corretto aiuto?

Sussiste una “situazione originaria” alla base del rapporto tra “aiutante” e “aiutato” da tenere in considerazione per partire con il piede giusto e, quindi, garantire al secondo una relazione che possa permettergli di esprimere al meglio e pienamente le proprie potenzialità, la ricchezza e unicità del proprio essere?

 

Si può fare. Si deve fare.

 

Servono onestà intellettuale ed emotiva.

La missione d’aiuto deve essere caratterizzata da una consapevolezza iniziale ben chiara su cosa stia accadendo e quale sia il primo scenario da affrontare.

Mettere in campo tutte quelle strategie,  quelle modalità di contatto che portino a eliminare, ribaltare, la prima “scena relazionale”, il primario rapporto che è insito nella logica aiutante/aiutato, di chi ha il compito di aiutare e di chi ha bisogno di essere aiutato.

 

Il naturale stato di “soggezione”  tra i protagonisti della relazione di aiuto va riequilibrato.

 

Come mutare radicalmente questo scenario iniziale? Rendendo “attivo” chi ha bisogno d’aiuto, concedendogli la possibilità di “esprimere” il personale modo di vivere la realtà, con il  linguaggio che gli è proprio, e consentendogli l'estrinsecazione di ogni potenzialità (il più delle volte inespressa se non addirittura sepolta da anni di “iper-assistenza preventiva” da parte di genitori onestamente preoccupati e sfiniti per tutto ciò che comporta avere un figlio “disabile intellettivo e relazionale”, soprattutto in rapporto con il “mondo” esterno alla famiglia).

Anni di visite, diagnosi, terapie (di ogni sorta) senza alcun vero contatto “relazionale”, sana comprensione, ascolto attivo, possibilità di restituzione della vera natura della propria realtà, si accompagnano troppo spesso al sentirsi persi nella logica delle colpe.

 

Per cui, prima di mettere in campo le “attività”, “qualità” relazionali , è necessario partire da ciò che, a mio avviso, NON SI DEVE FARE.

 

Innanzitutto, quindi, eliminare tutti quegli interventi che, invece di rimuovere la naturale “soggezione” dell’“aiutato”, la rimarcano (con conseguente incremento degli ostacoli inibenti la libera espressione di se stesso).

Ma, anche, costruire un rapporto che permetta all'“aiutato” di aprirsi a una realtà degna di essere affrontata con sempre maggior fiducia e ottimismo, perciò cancellando ogni aspetto della relazione ottundente il contatto con il mondo.

 

Ho coniato la definizione di TRIPLA A.

“AAA”, intesa come A-ccoglienza, A-ttenzione, A-scolto: tre pilastri di un tavolo relazionale che si regge, appunto, su tre gambe.

 

In mancanza di una di queste prerogative, la relazione, il tavolo, cadrebbe inesorabilmente.

Quali le risposte da non dare, gli atteggiamenti da evitare, per mettere l’altro nella condizione di  “aiutarsi”, rendersi sempre più autonomo e capace di prendere decisioni più sane e rivolte al proprio benessere?

Non consolare.

Non consigliare.

Non giudicare.

Non interpretare.

Non inquisire, investigare.

Tutto ciò rimarcando, ancora una volta, che la soggezione iniziale tra le due parti (aiutante/aiutato), non permette di aprire le porte alla valorizzazione delle soggettive risorse presenti in ogni persona.

Rispettare il personale rapporto con il mondo, Accogliere, porre Attenzione, Ascolto.

Partire dall’altro e non da se stessi.




La vera storia della costruzione di una relazione d'aiuto, ritenuta impossibile da realizzare, tra un bambino autistico e un educatore alla sua prima esperienza di "assistenza domiciliare". La scoperta che la disabilità è una realtà, oltre che soggettiva, soprattutto di sistema. Una famiglia angosciata dal "dopo di noi" e la difficoltà da parte di chi si chiede come dare aiuto, di scegliere le parole e lo stile relazionale per dare un tangibile e onesto contributo nel rispetto degli equilibri creati nel tempo all'interno del "sistema famiglia". La ricerca di sentire assieme la "musicalità del silenzio", il tentativo di capire, imparare, vivere il mondo di un bellissimo bambino che all'interno dello "spettro autistico" esprime una vitalità da accogliere, a cui dare attenzione e ascolto. In questo diario si potrà vivere assieme all'educatore che ricorda i quindici anni di affidamento educativo, i reciproci cambiamenti e la crescita dei protagonisti di una storia che era stata presentata come impossibile da vivere e costruire.


Un muro bianco, di fronte a me un bambino bellissimo con un bacchetta da direttore d'orchestra in mano, perso nel silenzio, in una melodia che solo lui percepiva.

Ai piedi del suo letto, di fronte a me le sue gesta per incoraggiare chi non seguiva la sua direzione, e sgridare chi stonava e non lo capiva, l'aria era offesa dalle sue sferzate per rendere la sinfonia sempre più coinvolgente.

Un'esperienza rara come una ferita, stavo iniziando a percepire la musicalità di quel silenzio, fecondato dalla sua disperata voglia di essere un unica cosa con quello spazio e quel tempo.

Questo bambino bellissimo...

Impegnarsi, perdersi nella musicalità del silenzio falciato dalle sue stilettate, i suoi movimenti nell’aria dolci e, improvvisamente, violenti. La sua “bacchetta magica”.

Non stavo male.

Non subivo il dramma dell’incapacità di vivere “normalmente”. Accettavo con amore l’'essere' di Cesare. Mi sentivo naturalmente vicino a lui.

Quelle ore le vivevo totalmente.

Mi sentivo fortunato: guardavo lui, vedevo me. Anche a me non era mai importato altro.

Ognuno il suo mondo.

Ma il problema era proprio come stare al mondo, visto che ci era stato insegnato un unico modo: la sopravvivenza con tutto ciò che ci sta intorno.

E il resto?

Eravamo noi.









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