Hai mai pensato di avere in te la sostanza per cambiare la tua vita, per sempre?
Un diario di viaggio che puoi decodificare, leggere e riscrivere?
Lo sai che è possibile diventare gli autori della propria vita e i padroni del proprio destino?
Lo sai che il passato, le sofferenze vissute, possono rappresentare ottimi alleati e preziose possibilità per trasformare una male-dizione in una bene-dizione?
UNA VITA SENZA, una storia di quotidiana resilienza, è una testimonianza di vita e di dialogo interiore, che ti aiuterà a cercare e trovare in te stesso la voglia di vivere dimenticata e le parole per esprimerla e viverla pienamente
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La ricerca della felicità, qual è la strada giusta da seguire? Una famiglia felice, coccole e dialogo. È quello che si legge su tutti i libri di fiabe, in tutti i manuali di pedagogia e psicologia che si studiano all’università, negli opuscoli distribuiti nelle strade. Ma è sempre così?
L’opera “Una vita senza”, di Giovanni Tommasini, può essere introdotta con un’emblematica frase di Oscar Wilde: «I figli iniziano amando i loro genitori, in seguito li giudicano. Raramente, se non mai, li perdonano».
Credo che il punto d’inizio sia proprio questo, l’amore di un bambino verso i genitori che non viene ricambiato, anzi, viene utilizzato come ariete per infliggere in esso dubbi, insicurezze, paure ed ansia. Un’ansia frenetica e continua, che non lascia spazio a dialoghi, chiarimenti e tregue psicologiche, ma che logora sia la mente che il corpo costringendo il soggetto a rifugiarsi nella scrittura o nei dialoghi immaginari con figure evanescenti con la speranza che lo portino via dalla patologica prigione di vetro in cui è nato.
Conoscendo l’autore, ho avuto modo di arricchire la lettura del libro in anteprima insieme ad elementi autobiografici corposi e di grande spessore umano; il risultato è stato un grande arricchimento professionale ed umano nel campo della relazione d’aiuto.
“Conoscersi per poter Conoscere” è un paradigma essenziale delle Scienze Pedagogiche, con le tre “A” sintetizzate dall’autore: “Ascolto”; “Accoglienza”; “Attenzione”, le quali insieme alle tre “S”, ossia: “Sapere”; “Saper fare”; “Saper essere” generano le fondamenta che aprono le strade ai sentieri della vita. Giovanni comincia con la rievocazione dei ricordi, anche quelli più complessi e dolorosi, con una lucida analisi descrittiva, come se stesse parlando in terza persona (cosa che poi effettivamente farà ad un certo punto del racconto), riscoprendo il sé bambino e dialogando con lui. Il libro “Una vita senza” si legge tutto d’un fiato, il linguaggio è scorrevole, secco ed essenziale. Molti periodi, volutamente brevi, lasciano spazio al lettore ad immaginare le situazioni, immergendolo nel pieno degli episodi. Avere a che fare con una famiglia problematica e violenta provoca profonde cicatrici nell’animo umano, da cui si protraggono anni ed anni di cure educativo-comportamentali, psicologiche ed alcune volte psichiatriche; fin troppe volte ho visto entrare ed uscire dal mio ufficio minori ed adulti assuefatti da barbiturici e psicofarmaci, oppure consumati dalle droghe finendo pedine nelle mani dalla criminalità organizzata, con l’incoscienza nell’essere vittime predestinate di quella prigione di specchi che vanno via via frantumandosi, a piccoli pezzi, e si conficcano nel sistema nervoso, distruggendo la loro vita, limitando quella di altri. Ma con Giovanni è stato diverso. Egli sin da bambino trasforma le angherie in forza interiore, la violenza fisica e mentale in ascolto e dialogo, la all’epoca primordiale scrittura emotiva in libri di grande spessore. Giovanni non è uno dei tanti sopravvissuti, ma un uomo che ha scelto di vivere e che non si è piegato alle ipocrisie della nostra cieca società, poiché Giovanni svolge il mestiere di Educatore. Ed ha scelto di farlo con gli “invisibili”; i disabili. Affrontando le grandi paure del nostro tempo, ossia “il diverso”, l’estraneo, il malato. Ecco la sofferenza che diviene “resilienza”, il connubio di elementi istintivi, affettivi, emotivi e cognitivi che forgiano un carattere capace di assorbire gli urti mantenendosi integro nel tempo. Giovanni trasporta il proprio, profondo, rispetto per la vita anteponendo l’essere umano prima del caso clinico o patologico; ecco spiegato il segreto della sua profonda capacità empatica. Parafrasando Jung ne “Seminari sullo Zarathustra di Nietzsche”, la capacità empatica dell’autore di coinvolgere il lettore si chiarisce in un grande insegnamento: «Non sei capace di amare, se non ami te stesso […]. Se riuscirai ad amare te stesso, ti troverai già sulla strada dell’altruismo. Amare se stessi è un compito così difficile e sgradevole che, se riesci a fare una cosa del genere, potrai riuscire ad amare anche i rospi, poiché l’animale più disgustoso è di gran lunga migliore di te». Il capitolo conclusivo del volume, il giorno della laurea, è una chiara rappresentazione pedagogica del concetto di resilienza. Un oramai giovane uomo, un professore di grande spessore umano, una tesi impeccabile, nessuno ad assisterne la discussione, un futuro ignoto che non fa più tanta paura… o forse fa meno paura del passato, il quale continua a bussare alla porta della mente e del cuore generando una forte malinconia. La quale è assai tangibile di pagina in pagina, ma che, forse, è necessaria per rievocare determinati ricordi. “Una vita senza” è anche un potente messaggio ai giovani, poiché oggi la società impedisce ad essi di vivere la loro fanciullezza, li bombarda di messaggi pubblicitari, spesso subliminali, che li spingono a crescere sempre più in fretta, lontano dalle priorità della loro età, come il gioco e la scuola, come l’affetto familiare e il “piacere della scoperta”. Sono, in sintesi, bambini costretti a divenire adulti pre-termine i quali non riescono a identificare il proprio ruolo nella società, finendo con l’essere piatti emotivamente e consoni alla logica del gruppo, inteso come nucleo che “omologa personalità omologate”, tipico dell’“epoca delle passioni tristi” in cui noi pedagogisti ed educatori siamo chiamati ad operare come esperti dell’educazione continua. I media e la gioventù sono oggi divenuti un binomio indissolubile, i “nativi digitali” utilizzano il web e gli smartphone come una parte di sé, vivendo immersi in logiche commerciali d’interesse per il consumo di massa e di totale disinteresse per il mondo dell’istruzione e del sociale. La stessa “valorizzazione di sé”, la soggettività, è divenuta un qualcosa di oscuro da tenere distante, perché il “noi” dà sicurezza, mentre l’“io” impaurisce, comporta delle responsabilità. Ecco perché questo libro è potente, ed ecco perché va diffuso nelle scuole. Oltre il nichilismo, oltre il deserto emotivo da combattere, oltre il proprio egocentrismo, esiste l’amare la vita. Salvare un singolo ragazzo significa avere speranza di rendere libera una generazione. Una libertà che l’autore si è conquistato gradino dopo gradino, “step by step”, combattendo i mostri che offuscavano la sua mente, uscendone vincitore. M. Gennari, nell’opera “Trattato di Pedagogia Generale”, scrive: «“L’uomo misterioso esito creaturale e/o misterioso compimento evolutivo permane al cospetto di se stesso. Se trova la forza e la capacità di penetrarsi con il proprio sguardo interno, può scoprirsi portatore, nella sua essenza, del mistero.[…] L’esperienza creativa del viaggio dentro e oltre se stesso fa dell’uomo un soggetto che si cerca nella sua sostanza profonda, composta anche di quella coscienza dove si radica ogni conoscenza. Rivendicare l’essenza umana del soggetto ha il valore proprio del fondare l’uomo nell’animo e nell’umanità». D’altronde, come Kant insegna: «Il pensare che la natura umana possa diventare sempre più progredita, mediante l’educazione, è cosa meravigliosa». Una canzone ha accompagnato la mia lettura di “Una vita senza”, nella quale ho trovato una profonda corrispondenza con i contenuti. J
ohnny Cash, ne “I see a darkness” sembra descrivere il libro; forse perché anch’esso testimone di un’infanzia infelice che, però, lascia una profonda speranza, e commuove chi l’ascolta, un po’ come mi ha commosso il libro: “Well, you're my friend and can you see / Many times we've been out drinkin' / Many times we've shared our thoughts / But did you ever, ever notice, the kind of thoughts I got? / Well, you know I have a love, a love for everyone / I know. And you know I have a drive to live, I won't let go. /But can you see this opposition comes rising up sometimes? / That it's dreadful imposition, comes blacking in my mind. / And that I see a darkness. / Did you know how much I love you? /Is a hope that somehow you, /Can save me from this darkness. / Well, I hope that someday, buddy, / we have peace in our lives. / Together or apart, alone or with our wives. / And we can stop our whoring and pull the smiles inside. / And light it up forever and never go to sleep. My best unbeaten brother, this isn't all / I see”.
DR. DAVIDE PISERÀ
«Non capisco tutto e mi rallegro
persino che il mondo come un oceano
inquieto superi la mia capacità
di comprendere il senso dell’acqua, della pioggia,
dei bagni nello Stagno del Fornaio […]»
Ode alla molteplicità, A. Zagajewski
La scrittrice austriaca Ingerborg Bachmann in alcune interviste rilasciate fra gli anni ’50 e ’70 ci ha lasciato alcune importanti considerazioni circa il compito poetico del pensiero. Un compito che dovrebbe portare nelle esperienze di dolore degli altri perché «il pericoloso sviluppo di questo mondo moderno glielo sottrae» (Bachmann, In cerca di frasi vere, Bari, Laterza, 1989, p.7). Si tratta non solo di un’intenzione autobiografica o intimista di dialogo interiore, ma ci permette di portare attenzione ad una possibile necessità etica, e se vogliamo politica, di una scrittura del “ricordo”. Lo sforzo è dunque quello di appellarsi, attraverso l’esistenza del linguaggio, alla “conoscenza” di quello spazio in cui non si ha solo una vicinanza empatica o d’immedesimazione con il proprio vissuto, ma si raccoglie una rilevanza collettiva della memoria.
La storia dell’altro, oppure propria, diviene così ricordata e non rimossa. Riportata a quel dialogo “comune” che riarticola il senso delle cose, ne fa scaturire margini oscuri, ne assopisce o risveglia alcune luminosità e presuppone la presenza dell’altro o dell’altra, per essere ascoltata, compresa, trasformata. Dopotutto per scrivere ci si ferma a pensare, si scopre la fatica di trovare alcune parole che “sappiano dire” palesando così continuamente la paradossalità “dell’impossibilità di dire”, un gioco straordinario che ci mette nella disposizione a riconoscere che non siamo soli a parlare con noi stessi ma già plurali e insieme ad altri.
Non cloni ma meticci. Quell’origine, quel germoglio che non si riproduce per spezzamento e innesto ma diviene per fortuna nascita, molteplicità di nascite che, come diceva Arendt, è condizione dell’umanità: essere nati per cominciare. Quando si va in cerca di scrittura forse si ricerca proprio questa generatività.
Una provocatoria libertà simile a quella di essere nascenti, non solo frammenti di un mondo capitati qui per caso, ma tessuti intrecciati che disperdono autorità, poteri, ruoli e identità.
La scrittura, così, ci concede quella libertà di fare esperienza di quell’insieme di eventi attraverso il pensare e, anche se già pensati, diventando così, felicemente, un qualcosa di più, di ulteriore, in cui siamo anche di più di quello che abbiamo detto o stiamo per dire.
Sperimentiamo così la posizione, lo sguardo e il punto di vista di chi «stava riuscendo a capire le parole, tutto quello che contenevano. Ma, nonostante tutto, aveva la sensazione che possedessero una porta falsa, nascosta attraverso cui sarebbe trovato il loro vero significato» (C. Lispector, Vicino al cuore selvaggio, Adelphi Milano, 2003, p. 54). Un rischio, come quello di essere liberi ripercorrendo e trovando legami, un’esposizione che richiede la nostra attenzione a trovare temporaneamente una forma.
Non si può certo sottovalutare che la scrittura resti, sia lì, presente, nero su bianco, irrimediabilmente definita. Questa presunta fermezza è tuttavia un margine, una soglia, un confine che di qua ha la mano della scrittrice o dello scrittore e di là lo sguardo della lettrice o del lettore. Grazie a questi personaggi quel confine diviene labile, lì in quel punto nasceste, grazie alla magia di saper concatenare lettere e di vedere questo concatenamento, diviene la possibile ri-articolazione di mondi.
Il lettore o la lettrice vedrà una forma scritta che potrà deformare e portare nel mondo con un giudizio, un punto di vista, un sentimento che la farà essere ancora. In questo senso, quella forma che tanto si va cercando è fragile, effimera, temporanea, anche se scritta.
La scrittura è un lungo discorso di cui, diceva W. Szymborska: «la prima frase è sempre la più difficile» e nasce, a mio avviso, da un qualcosa che “non so”, da una continuazione di domande, di imprecisioni e inciampi che temo, oggi, la contemporaneità voglia racchiudere in margini di sicurezza, domicilio e perfezione. La scrittura non sta al passo coi tempi, rallenta, aumenta, disloca asettiche verità, s’infila negli interstizi della realtà provando a confonderla per comprenderla. Quando questo accade è un improvviso momento, un momento di cui non si conosce mai l’inizio preciso ma che necessita di spazio per far sì che esso possa cominciare.
C’è qualcosa in cui credere e da perdonare nella scrittura è «la fede nelle forze segrete che sonnecchiano in ogni cosa e la convinzione che con l’aiuto di parole opportunamente scelte riuscirà a risvegliarle: il poeta (o la scrittrice aggiungo io) può anche aver conseguito in modo trionfale sette lauree, ma nel momento in cui si mette a scrivere l’uniforme del razionalismo comincia a stargli stretta. Ecco che allora si agita sbuffa, slaccia un bottone dopo l’altro, finché non salta fuori dal suo vestitino […]» (A. Bokont, J.Szczesna, Cianfrusaglie dal passato, Adelphi, Milano, 2015, p.172).
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Paradossale, inoltre, che chi scrive quanto appena detto vada poi in cerca di dialogo, di pensiero non scritto, attraverso una pratica di filosofia insieme all’infanzia e ad altri mondi nell’idea che questo possa permettere un proposito, quello della pluralità, l’insieme, che anche qui «concede il cominciamento, ciò che permette l’interruzione dell’ordinarietà, la sospensione della metodicità, l’emergere di sensibilità rivoluzionarie»
(a cura di S. Bevilacqua, P. Casarin, Philosophy for children in gioco. Esperienze di Filosofia a scuola: le bambine e i bambini (ci) pensano, Mimesis, Udine/Milano, 2016, p.61).