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lunedì 27 novembre 2023

La vera storia della costruzione di una relazione d'aiuto tra un educatore domiciliare e un bambino autistico.

 


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La vera storia della costruzione di una relazione d'aiuto, ritenuta impossibile da realizzare, tra un #bambino #autistico e un educatore alla sua prima esperienza di "assistenza domiciliare". La scoperta che la disabilità è una realtà, oltre che soggettiva, soprattutto di sistema. Una famiglia angosciata dal "dopo di noi" e la difficoltà da parte di chi si chiede come dare aiuto, di scegliere le parole e lo stile relazionale per dare un tangibile e onesto contributo nel rispetto degli equilibri creati nel tempo all'interno del "sistema #famiglia". La ricerca di sentire assieme la "musicalità del silenzio", il tentativo di capire, imparare, vivere il mondo di un bellissimo bambino che all'interno dello "spettro autistico" esprime una vitalità da accogliere, a cui dare attenzione e ascolto. In questo diario si potrà vivere assieme all'educatore che ricorda i quindici anni di affidamento educativo, i reciproci cambiamenti e la crescita dei protagonisti di una storia che era stata presentata come impossibile da vivere e costruire.

#autismo #educazione #famiglia #disabilità #scuola #sostegno 


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lunedì 2 ottobre 2023

La realtà. Piattaforma social senza più follower.

 


IL FRASTUONO DEL MONDO COS'È,

CANTAVA PAOLO CONTE.

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Stiamo vivendo un momento storico in cui non si sente più "il frastuono del mondo". Il silenzio è sempre più assordante, sui treni, in pizzeria, persone perse nello schermo di un device.

 

Mio figlio nella primavera del 2013 mi chiese "papà mi connetti?" e non mi resi conto che tutto stava cambiando, l'altro iniziava a sparire, uno tsunami digitale stava per travolgere tutto e tutti.




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Per la prima volta nella storia, una rivoluzione tecnologica in meno di dieci anni ha ribaltato la quotidianità di ognuno di noi, eliminando l'unica piattaforma social con la quale noi, ultima generazione nata e cresciuta, per la maggior parte della nostra vita, off line, senza rete, abbiamo avuto a che fare : la realtà.

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La desertificazione culturale, lessicale, emotiva, che la perenne connessione produce, è un vero e proprio progetto strumentale alla riduzione dell'utente ad una mera protesi del device, in funzione di una vita fatta di una serie di "touch" indotti, finalizzati all'ordinazione di merci (il magazzino ha ormai sostituito il palmo della nostra mano) , pagamento di ricariche, per giochi, servizi, svuotando ogni "azione umana" di ogni contenuto relazionale, affettivo, reale.

 

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Libri e EBooks da una realtà dimenticata. Quella del "NOI", degli abbracci, delle passeggiate mano nella mano, gli occhi negli occhi dell'Altro. 


Questo il futuro delle nuove generazioni.

Cosa possiamo fare noi ultima generazione nata, cresciuta, vissuta off line, nella realtà, con l'immagine di noi stessi riflessa nel volto dell'Altro?

Parliamone.....

Like addiction, challenge, nomofobia e vamping: sono le nuove patologie da iperconessione, rilevate da uno studio curato dall'Osservatorio nazionale adolescenza e condotto su 8.000 ragazzi a partire dagli 11 anni d'età. Dall'indagine, messa a punto anche in occasione del Safer Internet Day, emerge che il 98% tra i 14 e i 19 anni possiede uno smartphone personale già a 10 anni. Più i ragazzi sono piccoli, più hanno avuto precocemente tra le mani i vari strumenti tecnologici, sottolinea l'Osservatorio: il dato rilevante è che oltre 3 adolescenti su 10 hanno avuto modo di utilizzare uno smartphone direttamente nella primissima infanzia, con la possibilità anche di accedere liberamente a internet e alle applicazioni presenti nel telefono.

Tra i più giovani, l'età media dell’uso del primo cellulare, l’accesso a internet e l’apertura del primo profilo social si aggira intorno ai 9 anni. Circa 5 adolescenti su 10 dichiarano di trascorrere da 3 a 6 ore extrascolastiche con lo smartphone in mano, il 16% da 7 a 10 ore, mentre il 10% supera abbondantemente la soglia delle 10 ore. Il 95% degli adolescenti ha almeno un profilo sui social network, contro il 77% dei preadolescenti. Il primo è stato aperto intorno ai 12 anni e la maggior parte di loro arriva a gestire in parallelo 5-6 profili, insieme a 2-3 app di messaggistica istantanea.

 

Il fatto di avere una serie di applicazioni social sconosciute ai genitori - sottolinea l'Osservatorio - permette loro di essere meno controllati e più sicuri di poter anche osare, favorendo comportamenti come il sexting, cyberbullismo e diffusione di materiale privato in rete. Uno dei dati più allarmanti - evidenzia il report - è che il 14% degli adolescenti ha anche un profilo finto, che nessuno conosce o solo pochi, risultando quindi non controllabile dai genitori e nel contempo facile preda della rete del grooming (adescamento di minori online).

 

Sei adolescenti su dieci dichiarano di non poter più fare a meno di WhatsApp: il 99% lo utilizza ogni giorno, il 93% si scambia i compiti attraverso il gruppo-classe e il 70% chatta in maniera compulsiva. Per quanto riguarda i preadolescenti, invece, il 96% utilizza WhatsApp.

 

Quali sono gli effetti di questo essere sempre connessi? Il 'vamping', ossia la moda degli adolescenti di trascorrere numerose ore notturne sui social media, sembra diventata una vera e propria abitudine - denuncia l'Osservatorio - tanto che 6 su 10 dichiarano di rimanere spesso svegli fino all’alba a chattare, parlare e giocare, rispetto ai 4 su 10 nella fascia dei preadolescenti. La tendenza, invece che accomuna tutti i ragazzi è di tenere a portata di mano il telefono quasi tutto il giorno, notte compresa, fino al 15% che si sveglia quasi tutte le notti per leggere le notifiche e i messaggi, in modo da non essere tagliati fuori, altra patologia emergente legata all’abuso dello smartphone (Fomo - fear of missing out).

 

Gli adolescenti - allerta l'Osservatorio - sono alla continua ricerca di approvazione, che si raggiunge attraverso like e follower: per circa 5 su 10 è normale condividere tutto quello che si fa, comprese foto personali e private, mettendo tutto in vetrina, sottoponendolo alla severa valutazione della macchina dei 'mi piace'. Per oltre 3 adolescenti su 10 è importante il numero dei like ricevuti, che accrescono l’autostima, la popolarità e quindi la sicurezza personale. Ovviamente, vale anche il contrario,tanto che il 34% ci rimane molto male e si arrabbia quando non si sente apprezzato.

 

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venerdì 29 settembre 2023

IL PANICO PUO' ESSERE NOSTRO ALLEATO?

 


Come vivere consapevolmente, storicizzare e neutralizzare, i prodromi del panico?

Il panico può essere nostro alleato,

il corpo chiede di fermarsi per trovare 

"le parole per viverlo".


L'amor proprio e come mi ha salvato la vita.
Ci sono in noi esperienze passate che se non recuperate vanno in automatico ad alimentare tutto ciò da cui siamo scappati. Può rappresentare la sfida di una vita l'affrontare coraggiosamente quell'altrove che tutto vorremmo piuttosto che incontrare e rivivere. Paradossalmente più rimandiamo questo appuntamento più il nostro corpo ci chiederà, nelle forme più diverse e deflagranti, di riprendere a ritroso il cammino.
Siamo fuggiti da quella casa, quelle case, anche se i loro protagonisti continuano a dominare su noi stessi.
Si può tornare, entrare, mettersi in contatto, coraggiosamente trovare le parole per tradurre un'antica male dizione per riprendere, stavolta e per sempre, il cammino, nel sentiero della bene dizione.
„Gli dei di una volta, perso l'incanto e assunte le sembianze di potenze impersonali, escono dai loro sepolcri, aspirano a dominare sulla nostra vita e riprendono la loro lotta eterna.“ — Max Weber4


Traumi; ferite emotive; una grande sofferenza interiore che affonda le radici nell’infanzia e, paradossalmente, ha origine proprio dalla famiglia, da quel nucleo che, dalla nascita, avrebbe dovuto costituire il nostro nido, un riparo accogliente e amorevole in cui sentirci al sicuro, protetti, amati, coccolati.
A volte, purtroppo, questo non accade ma, al contrario, è proprio la famiglia di origine a costituire la fonte di ogni nostro problema.  La casa si trasforma in una prigione, in un infermo dantesco da cui non sarà possibile fuggire per molti anni e cioè fino a quando l’età e le circostanze non ci permetteranno di prendere il volo e andarce alla ricerca di un luogo se non più sicuro, quantomeno più sereno.
Dalla prigione fisica, quindi, spesso riusciamo a uscire, in un modo o nell’altro, non fosse altro che per quell’innato e, a volte sottostimato, spirito di sopravvivenza.  Da quella emotiva e mentale che la realtà vissuta ha creato, forgiato ed in cui noi stessi siamo sprofondati può essere molto più difficile evadere e richiedere tempi più lunghi. 
A causa delle circostanze vissute, abbiamo, infatti, finito con il credere che altro la Vita non ci avrebbe riservato; che forse tanto dolore e tanta sofferenza ce li siamo addirittura meritati; e che l’inferno è sempre meglio del nulla.
Le circostanze oggettive, rafforzate dalla nostra personale percezione degli eventi, dalla nostra estrema sensibilità e altrettanto profonda emotività hanno continuato a tenerci a lungo incatenati in uno stato di totale negatività, un tunnel buio in cui la luce sembrava non entrare mai.
Il tempo passa, noi cresciamo, maturiamo, abbiamo relazioni spesso altrettanto fallimentari di quelle che i membri della nostra famiglia hanno avuto. 
La sensibilità e l’emotività crescendo non diminuiscono ma, al contrario, si rafforzano.  Ad esse si aggiunge una nostra maggiore capacità analitica degli eventi traumatici di cui siamo stati testimoni quando non vittime.  La conclusione cui potremmo approdare è che la Vita sembra portare solo problemi e mai soluzioni né tantomeno risposte alle nostre domande.
Corpo, Mente, Psiche e Spirito sono in continuo stato di allerta, di trambusto... fino a quando non reggono più e, a modo loro, chiedono disperatamente aiuto: ci ritroviamo improvvisamente preda di attacchi di panico

 
Andiamo in ipoventilazione, ci manca il respiro, perdiamo i sensi o comunque il controllo del nostro corpo.  Crolliamo al suolo sotto gli occhi preoccupati di qualche Buon Samaritano di passaggio che ci soccorre e chiama un’ambulanza.  La macchina – te stesso – l’hai guidata sempre al massimo della velocità cui poteva andare e il motore alla fine ha ceduto: la macchina si è fermata.
Esiste una soluzione, una via d’uscita a tutto questo?  Assolutamente sì!
Il percorso psicoterapeutico sicuramente sarà d’aiuto e in molti casi persino necessario. Noi, però, dobbiamo fare la nostra parte.  Da ‘testimoni oculari’ dobbiamo trasformarci in ‘creatori’ della nostra Vita.
Le ferite emotive restano, così come rimarrebbero le cicatrici fisiche se le avessimo.  Dei traumi vissuti rimarrà sicuramente il ricordo.
L’importante è prendere in mano le redini della propria vita.  Come?
Innanzitutto confrontandoci con la realtà vissuta, metabolizzandola, per quanto penosa.
Forse in passato e per molto tempo questo passo non è stato fatto perché non eravamo pronti a confrontarci di nuovo con tanto dolore, a guardarlo in faccia e a riviverlo.
La vera guarigione, tuttavia, può realizzarsi solo attraverso il confronto con e l’accettazione consapevole della realtà per quanto dolorosa essa sia.
Accettare ciò che è stato, per quello che è stato, è fondamentale. 
Chi ci ha provocato tanta sofferenza era malato/a, non in grado di controllare la propria vita né fare scelte diverse.  Se ne avesse avuto la capacità, le avrebbe fatte.
Accettare la realtà per quella che è stata non significa assolutamente giustificare, ma semplicemente riconoscere che le cose sono andate in un certo modo e che non è possibile cambiare il passato, riavvolgere la bobina e crearne uno nuovo, diverso, migliore.
È possibile, tuttavia, creare un presente e un futuro diversi, rifiutando di continuare a essere delle vittime
Dobbiamo, quindi, non solo confrontarci con la realtà e accettare ciò che è stato, ma avere la determinazine, la forza, il coraggio di dare un taglio al passato e riemergere dalle ceneri, creando un presente e un futuro non di pura sopravvivenza, ma vivendo la Vita nella maniera più piena possibile, focalizzandoci sulle sue bellezze, su ciò che ci dà gioia, serenità, che ci arricchisce spiritualmente, che  riempie il nostro cuore, la nostra mente e il nostro spirito di positività, di luce.
La scrittura emotiva, utilizzata quindi a scopo terapeutico, diventa uno strumento estremamente valido per liberarsi del passato.
 
Il processo di disintossicazione è in atto: non ci fermeremo fino a quando l’ultima tossina non sarà stata eliminata e il nostro corpo, la nostra mente, il nostro spirito e la nostra psiche non avranno raggiunto una salute ottimale, quella tanto agognata e mai assaporata né vissuta completamente.
 
 
Maria Teresa De Donato,
Autrice, Giornalista freelance, Dottoressa in Salute Olistica
 



martedì 26 settembre 2023

LA RELAZIONE D'AIUTO. NON SOLO EMPATIA.



GIOVANNI TOMMASINI SU AMAZON

 Cosa intendiamo quando parliamo di relazione d’aiuto?

 

Da venticinque anni mi chiedono di assistere, aiutare, famiglie all’interno delle quali è presente un figlio con disabilità intellettiva e relazionale.

Figli che non hanno avuto modo, per i più svariati motivi, di poter crescere ed esprimere pienamente ciò che permette loro di autodeterminarsi, rendersi autonomi ed emanciparsi dalla famiglia; adolescenti che non sono riusciti a conferire una struttura al loro essere in uno spazio e in un tempo che tutti noi, invece, condividiamo “senza ormai più pensarci”; persone nei cui confronti è vitale assicurare un accudimento: quello  naturale, di cui ha bisogno un neonato, un bambino,  ma che nei soggetti affetti da autismo va garantito per tutta la vita.

Una vita, quella delle famiglie coinvolte, senza poter prevedere e programmare niente, caratterizzata da una routine priva di relazioni e vita sociale.

 

Pertanto, come costruire una relazione d’aiuto?

 

Quali, allora, le azioni da mettere in campo per fornire un contributo determinante al fine di elevare le autonomie del “disabile” e alleviare il peso gravante sulle famiglie, letteralmente  modellate sulla “patologia” presente al loro interno?

È possibile invertire la rotta, concretare nuove prospettive pilotando tutti i componenti del “sistema famiglia” su livelli di “equilibri sulla sofferenza” più sostenibili, ariosi, vivibili?

Come condurre un intervento educativo, una relazione d’aiuto?

Quali sono i presupposti, le prerogative, le azioni, gli atteggiamenti da intraprendere onde assicurare un vero, onesto e corretto aiuto?

Sussiste una “situazione originaria” alla base del rapporto tra “aiutante” e “aiutato” da tenere in considerazione per partire con il piede giusto e, quindi, garantire al secondo una relazione che possa permettergli di esprimere al meglio e pienamente le proprie potenzialità, la ricchezza e unicità del proprio essere?

 

Si può fare. Si deve fare.

 

Servono onestà intellettuale ed emotiva.

La missione d’aiuto deve essere caratterizzata da una consapevolezza iniziale ben chiara su cosa stia accadendo e quale sia il primo scenario da affrontare.

Mettere in campo tutte quelle strategie,  quelle modalità di contatto che portino a eliminare, ribaltare, la prima “scena relazionale”, il primario rapporto che è insito nella logica aiutante/aiutato, di chi ha il compito di aiutare e di chi ha bisogno di essere aiutato.

 

Il naturale stato di “soggezione”  tra i protagonisti della relazione di aiuto va riequilibrato.

 

Come mutare radicalmente questo scenario iniziale? Rendendo “attivo” chi ha bisogno d’aiuto, concedendogli la possibilità di “esprimere” il personale modo di vivere la realtà, con il  linguaggio che gli è proprio, e consentendogli l'estrinsecazione di ogni potenzialità (il più delle volte inespressa se non addirittura sepolta da anni di “iper-assistenza preventiva” da parte di genitori onestamente preoccupati e sfiniti per tutto ciò che comporta avere un figlio “disabile intellettivo e relazionale”, soprattutto in rapporto con il “mondo” esterno alla famiglia).

Anni di visite, diagnosi, terapie (di ogni sorta) senza alcun vero contatto “relazionale”, sana comprensione, ascolto attivo, possibilità di restituzione della vera natura della propria realtà, si accompagnano troppo spesso al sentirsi persi nella logica delle colpe.

 

Per cui, prima di mettere in campo le “attività”, “qualità” relazionali , è necessario partire da ciò che, a mio avviso, NON SI DEVE FARE.

 

Innanzitutto, quindi, eliminare tutti quegli interventi che, invece di rimuovere la naturale “soggezione” dell’“aiutato”, la rimarcano (con conseguente incremento degli ostacoli inibenti la libera espressione di se stesso).

Ma, anche, costruire un rapporto che permetta all'“aiutato” di aprirsi a una realtà degna di essere affrontata con sempre maggior fiducia e ottimismo, perciò cancellando ogni aspetto della relazione ottundente il contatto con il mondo.

 

Ho coniato la definizione di TRIPLA A.

“AAA”, intesa come A-ccoglienza, A-ttenzione, A-scolto: tre pilastri di un tavolo relazionale che si regge, appunto, su tre gambe.

 

In mancanza di una di queste prerogative, la relazione, il tavolo, cadrebbe inesorabilmente.

Quali le risposte da non dare, gli atteggiamenti da evitare, per mettere l’altro nella condizione di  “aiutarsi”, rendersi sempre più autonomo e capace di prendere decisioni più sane e rivolte al proprio benessere?

Non consolare.

Non consigliare.

Non giudicare.

Non interpretare.

Non inquisire, investigare.

Tutto ciò rimarcando, ancora una volta, che la soggezione iniziale tra le due parti (aiutante/aiutato), non permette di aprire le porte alla valorizzazione delle soggettive risorse presenti in ogni persona.

Rispettare il personale rapporto con il mondo, Accogliere, porre Attenzione, Ascolto.

Partire dall’altro e non da se stessi.




La vera storia della costruzione di una relazione d'aiuto, ritenuta impossibile da realizzare, tra un bambino autistico e un educatore alla sua prima esperienza di "assistenza domiciliare". La scoperta che la disabilità è una realtà, oltre che soggettiva, soprattutto di sistema. Una famiglia angosciata dal "dopo di noi" e la difficoltà da parte di chi si chiede come dare aiuto, di scegliere le parole e lo stile relazionale per dare un tangibile e onesto contributo nel rispetto degli equilibri creati nel tempo all'interno del "sistema famiglia". La ricerca di sentire assieme la "musicalità del silenzio", il tentativo di capire, imparare, vivere il mondo di un bellissimo bambino che all'interno dello "spettro autistico" esprime una vitalità da accogliere, a cui dare attenzione e ascolto. In questo diario si potrà vivere assieme all'educatore che ricorda i quindici anni di affidamento educativo, i reciproci cambiamenti e la crescita dei protagonisti di una storia che era stata presentata come impossibile da vivere e costruire.


Un muro bianco, di fronte a me un bambino bellissimo con un bacchetta da direttore d'orchestra in mano, perso nel silenzio, in una melodia che solo lui percepiva.

Ai piedi del suo letto, di fronte a me le sue gesta per incoraggiare chi non seguiva la sua direzione, e sgridare chi stonava e non lo capiva, l'aria era offesa dalle sue sferzate per rendere la sinfonia sempre più coinvolgente.

Un'esperienza rara come una ferita, stavo iniziando a percepire la musicalità di quel silenzio, fecondato dalla sua disperata voglia di essere un unica cosa con quello spazio e quel tempo.

Questo bambino bellissimo...

Impegnarsi, perdersi nella musicalità del silenzio falciato dalle sue stilettate, i suoi movimenti nell’aria dolci e, improvvisamente, violenti. La sua “bacchetta magica”.

Non stavo male.

Non subivo il dramma dell’incapacità di vivere “normalmente”. Accettavo con amore l’'essere' di Cesare. Mi sentivo naturalmente vicino a lui.

Quelle ore le vivevo totalmente.

Mi sentivo fortunato: guardavo lui, vedevo me. Anche a me non era mai importato altro.

Ognuno il suo mondo.

Ma il problema era proprio come stare al mondo, visto che ci era stato insegnato un unico modo: la sopravvivenza con tutto ciò che ci sta intorno.

E il resto?

Eravamo noi.









GIOVANNI TOMMASINI SU AMAZON


lunedì 25 settembre 2023

AUTISMO E EMPATIA. SOFFRIRE ASSIEME. UNA LETTERA SPIEGA COME SIA POSSIBILE.

 



Caro Giovanni,

che piacere risentirti dopo tutto questo tempo!

Ancor di più sapendo che stai bene e ti sia buttato in una nuova impresa! Non sono più di tanto sorpreso, devo scrivere, poiché nel tempo mi sono abituato al fatto che tu sia un “uomo dalle mille risorse”. Certo non mi sarei aspettato di ritrovarti scrittore anche se, come ti definisci tu, “per caso”.

Ho accettato con piacere di leggere il tuo progetto sulla tua storia con Cesare e... Che bello!

Complimenti, sei stato molto bravo, come al solito potrei dire...

Ѐ stato un piacere rileggere la storia di Cesare, e capire, ancor meglio, che cosa è successo in quel lasso di tempo e, grazie al tuo scritto, capire anche perché è potuto accadere...

Devo dire, anzitutto, che mi hanno colpito la lucidità, la semplicità e, nel contempo, la profondità di quanto sei andato a descrivere; con poche, semplici parole sei riuscito a dipingere un mondo che appare ancora oggi strano e misterioso, quello dell’autismo. Mi è venuto spontaneo domandarmi cosa ha funzionato così bene nella vostra relazione e cosa ha permesso di arrivare dove siete arrivati.

La prima risposta è stata: l’EMPATIA!

Questa è una strana parola, talvolta abusata, spesso poco compresa.

Leggendo la storia che tu hai scritto, se ne comprende bene il significato, a partire dalla sua etimologia: “Soffrire assieme”.

Cesare ti ha permesso di entrare nel suo mondo perché ha sentito che anche tu avevi sofferto e potevi così comprendere quello che lui provava.

E poi ti ha “fatto soffrire”, mettendoti alla prova, testando la tua capacità di tollerare anche le sue sofferenze.

Solo dopo averlo fatto ha potuto fidarsi e, quindi, affidarsi.

La seconda è stata la tua “NON PAURA”.

Bada bene: non è il coraggio.

Ѐ il fatto di non esserti fatto spaventare dai mostri che popolavano il mondo di Cesare, di averli saputi affrontare accanto a lui, dimostrandogli che potevano, se non essere sconfitti definitivamente, almeno essere neutralizzati.

Perché lo hai potuto fare?

Un po’ per la tua incoscienza dettata dall’inesperienza professionale, ma soprattutto perché hai saputo guardarti dentro, scoprire che anche tu avevi dei mostri e li avevi neutralizzati…

In definitiva, quindi, è stata la tua grande onestà emotiva e intellettuale a permetterti di ottenere i risultati che, assieme a Cesare, hai conseguito.

Sono contento di avere lavorato con te, di aver potuto rileggere la storia e di scrivere queste cose.

Continua a essere te stesso, ad avere la stessa onestà e a combattere i mostri che popolano il nostro mondo.

Il carissimo Roberto.

Dott. Roberto Soriani - Psichiatra

Salute mentale – ASL3 Liguria




La vera storia della costruzione di una relazione d'aiuto, ritenuta impossibile da realizzare, tra un bambino autistico e un educatore alla sua prima esperienza di "assistenza domiciliare". La scoperta che la disabilità è una realtà, oltre che soggettiva, soprattutto di sistema. Una famiglia angosciata dal "dopo di noi" e la difficoltà da parte di chi si chiede come dare aiuto, di scegliere le parole e lo stile relazionale per dare un tangibile e onesto contributo nel rispetto degli equilibri creati nel tempo all'interno del "sistema famiglia". La ricerca di sentire assieme la "musicalità del silenzio", il tentativo di capire, imparare, vivere il mondo di un bellissimo bambino che all'interno dello "spettro autistico" esprime una vitalità da accogliere, a cui dare attenzione e ascolto. In questo diario si potrà vivere assieme all'educatore che ricorda i quindici anni di affidamento educativo, i reciproci cambiamenti e la crescita dei protagonisti di una storia che era stata presentata come impossibile da vivere e costruire.


Un muro bianco, di fronte a me un bambino bellissimo con un bacchetta da direttore d'orchestra in mano, perso nel silenzio, in una melodia che solo lui percepiva.

Ai piedi del suo letto, di fronte a me le sue gesta per incoraggiare chi non seguiva la sua direzione, e sgridare chi stonava e non lo capiva, l'aria era offesa dalle sue sferzate per rendere la sinfonia sempre più coinvolgente.

Un'esperienza rara come una ferita, stavo iniziando a percepire la musicalità di quel silenzio, fecondato dalla sua disperata voglia di essere un unica cosa con quello spazio e quel tempo.

Questo bambino bellissimo...

Impegnarsi, perdersi nella musicalità del silenzio falciato dalle sue stilettate, i suoi movimenti nell’aria dolci e, improvvisamente, violenti. La sua “bacchetta magica”.

Non stavo male.

Non subivo il dramma dell’incapacità di vivere “normalmente”. Accettavo con amore l’'essere' di Cesare. Mi sentivo naturalmente vicino a lui.

Quelle ore le vivevo totalmente.

Mi sentivo fortunato: guardavo lui, vedevo me. Anche a me non era mai importato altro.

Ognuno il suo mondo.

Ma il problema era proprio come stare al mondo, visto che ci era stato insegnato un unico modo: la sopravvivenza con tutto ciò che ci sta intorno.

E il resto?

Eravamo noi.









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La FOMO. FEAR OF MISSING OUT. Nuove patologie dalla perenne connessione.Ne siamo tutti coinvolti. Siamo disposti a riconoscere questa patologia e a metterci nuovamente in relazione con l'Altro e la Realtà?

 


LA FOMO: LA PAURA DI ESSERE TAGLIATI FUORI


La FOMO, Fear of Missing Out, ovvero la paura di essere tagliati fuori, delinea un tipo di ansia sociale che si esprime attraverso la paura di essere emarginati, esclusi, dalla comunità dei Social Network.

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Nello specifico, la paura di essere tagliato fuori spinge il soggetto a controllare ripetutamente i suoi profili social per verificare e “sorvegliare” cosa stanno facendo gli altri. Da qui nasce la necessità di “abbuffarsi” di immagini, informazioni ed eventi per poter non essere esclusi dalla vita social altrui e propria. Inoltre, un altro aspetto di questa condotta, riporta ad una invidia latente che si manifesta e configura nella considerazione che le esperienze degli altri siano più interessanti e appaganti delle proprie. Ancora, la FOMO porta il soggetto a pensare di perdere l’opportunità di una interazione sociale gratificante: l’esperienza che mi sto perdendo è più gratificante di quella che sto vivendo. Parrebbe quindi che la migliore interazione sociale possibile sia sempre concepita tramite il digitale. Infatti, come ben spiega John M. Grohol, psicologo esperto statunitense, “i Social Network sono contemporaneamente presenza annunciata e assenza percepita degli altri e di sé […] che induce il soggetto a percepire una aspettativa emotiva di qualcosa che si sta perdendo”.
 
La FOMO, la paura di essere tagliati fuori, in prima battuta, può essere attivata dai post visibili su Facebook e Instagram: un selfie durante un evento particolare può suscitare, infatti, la paura negli altri di essere mancati a una situazione considerata divertente. Chi osserva potrebbe sentirsi tagliato fuori dall’evento stesso e ciò comporterà la condivisione di foto o post di situazioni o eventi altrettanto piacevoli, a volte anche non reali. Si può ora ben comprendere quanto ci sia, di fondo, un sentimento di solitudine che si cerca di colmare attraverso i Social. Questa paura può produrre via via la necessità di apparire online per suscitare, negli altri la stessa FOMO. La necessità psicologica di mostrarsi in situazioni piacevoli, diviene più importante di averle vissute davvero.
 
Ma chi ha più probabilità di soffrire di FOMO? Di primo acchito sarebbe lecito pensare che la paura di essere tagliati fuori, la FOMO, porti al “freezing” del soggetto in un’ottica di fuga e ritiro frustrato. Nel caso particolare della FOMO, il soggetto è, però, sempre parte attiva del circuito descritto: è attivo poiché vi è la costante visione dei Social e delle “vite degli altri”, è attivo perché egli stesso ha la necessità di postare e suscitare invidia, mostrandosi divertito, circondato da persone che come lui si divertono.
 
Come ben chiarito da Andrew Przybylski, ricercatore dell’Università di Oxford che per primo ha coniato il termine FOMO, i livelli di quest’ultima sono maggiori in coloro che percepiscono un basso livello di considerazione della propria vita e un rapporto ambiguo e confuso con i Social Media.
 
La necesità di essere sempre connessi, oltre ad aumentare i livelli di FOMO, ci interroga sui livelli di consapevolezza delle persone affette da questo disagio: quale sensibilità rispetto a loro stessi si riconoscono? Che tipo di coscienza genera la necessità della connessione? Queste domande consentono perciò di indirizzare la nostra attenzione sullo sviluppo della cultura sulle dinamiche psicologiche e psicopatologiche della tecnologia online.
 
Quella che infatti pare, e appare, come una connessione, altro non è che una interruzione: interruzione di una interazione che sta avvenendo nel qui e ora considerata, però, potenzialmente meno appagante di un’altra a cui è impossibile non collegarsi e connettersi.
 
Accorgersene è il primo passo, rompere gli schemi abituali la soluzione. Da soli o con l’aiuto di un buon percorso psicologico specialistico.
http://www.escteam.net/2018/09/news/la-fomo-la-paura-di-essere-tagliati-fuori/
 
 
La sindrome da iperconnessione può essere definita come una forma di ansia che non permette, a chi ne è affetto, di disconnettersi dal mondo digitale. Naturalmente questa sindrome si è accentuata negli ultimi anni grazie alla diffusione degli Smartphone che ci consentono di collegarci ovunque ci troviamo, ma quando scollegarsi significa sentire un forte senso di disagio, allora vuol dire che alla base c'è un problema. Un famoso psicoterapeuta americano ha affermato che una 'cura' consiste nello riscoprire la natura, correre a piedi nudi su un prato o sulla sabbia, tutto ciò che praticamente ci permetta di scollegarci momentaneamente dall'aspetto digitale e cerebrale e ritornare nella vita reale.
 
Ma l'iperconnessione nasconde altri subdoli pericoli
Infatti, oggi, si inizia circa a 10 anni ad entrare nel mondo di internet con smartphone, profili social e canali youtube, nella lontana di speranza di diventare un web influencer o un fashion blogger. Sono figure così ambite che i giovani farebbero di tutto pur di iniziare una carriera di questo tipo. Si parla proprio di una carriera perché, se si riesce ad avere un buon numero di followers, si viene profumatamente pagati dalle aziende per promuovere i loro prodotti.
 
Tutto ciò porta con sé degli effetti collaterali poco gradevoli, la continua ricerca di attenzioni e lo scopo di raggiungere la notorietà spinge i giovani a superare ogni barriera e pubblicare contenuti personali che possono risultare pericolosi. I profili social non vengono seguiti solo dagli amici, ma anche da gente estranea che verrebbe a conoscenza di informazioni personali importanti che potrebbero riutilizzate per scopi illeciti allarmanti, mettendo in pericolo l'adolescente.
 
Like addiction e Vamping, ma di cosa si tratta?
Sono due fenomeni di recente introduzione e nati proprio come conseguenza del fatto di essere sempre davanti allo smartphone o al pc; il like addicition è il desiderio sfrenato di ricevere 'like' riguardo i propri contenuti pubblicati, una sorta di continua ricerca di approvazioni da parte del mondo social che non conosce limiti.
 
Ormai è 'normale' fare shopping e fotografarsi nei camerini per fare vedere a tutti gli abiti appena provati oppure andare a cena fuori e fare la foto dei piatti per pubblicarla sul proprio profilo social. Il vamping, invece, è l'abitudine di rimanere svegli fino all'alba per chattare o, comunque, per rimanere connessi e si accompagna al fomo, ovvero l'abitudine di svegliarsi durante la notte per controllare le notifiche o rispondere ai messaggi. Per non parlare delle sfide social che consistono nel compiere un'azione (come bere una grossa quantità di bevande alcoliche) e sfidare un amico, attraverso i canali social, a fare lo stessa azione, creando una catena con pericoli per la salute non indifferenti.
 
Sicuramente l'introduzione di questi moderni strumenti tecnologici ci ha facilitato la vita, specialmente in ambito lavorativo, ma quando non c'è più nessun freno inibitorio è il momento di mettere paura e fermarci a riflettere. Sicuramente non bisogna demonizzare lo strumento in sé, ma l'uso che se ne fa.
 

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INTRODUZIONE ALL'OPERA

Una domanda di mio figlio, in un giorno qualunque, ha squarciato quel velo di inconsapevolezza che aleggiava dentro di me e ho improvvisamente sentito crescere, nel tempo, una nuova paura: che i nostri ragazzi rimanessero intrappolati nelle maglie del web. Colto da ridde di interrogativi, sono giunto a chiedermi se, ogni volta che si connettono in rete, rischiano di scollegarsi dalla realtà... Così è nato questo libro. Pensieri e interrogativi sui Millennials: lo scritto di un padre preoccupato. Un confronto fra gli adolescenti degli anni Ottanta, la prima generazione senza guerra, e i figli di oggi, cresciuti davanti a uno schermo. In ogni pagina, traccio un percorso che riporti lo sguardo dei ragazzi sulla magia del mondo interiore. Che cosa sarà di loro se, come appare ormai evidente, crescono dimenticando la fecondante funzione dell’altro, così fondamentale per la costruzione del sé e della realtà circostante? Il mio invito alla riflessione vuole essere un punto di partenza. Ognuno sceglierà su quale aspetto porre l’accento. Come sul web, infatti, anche nella realtà è possibile fare un doppio click sulle parole e intraprendere un percorso per dischiudere nuovi orizzonti. In una ricerca ostinata della relazione autentica, ancorata a ricordi spazio-temporali, si muove il mio invito a realizzare una visione progettuale della vita. Fuori dal labirinto del web ci sono sguardi e parole che ci aspettano. Dobbiamo solo alzare gli occhi e ascoltare.
TEST IN APPENDICE PER VALUTARE LA DIPENDENZA DA INTERNET.



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INCIPIT

Eravamo a pranzo sulla bellissima terrazza di una trattoria in campagna, fra le alture di Genova. La natura attorno a noi e il mare di fronte. Tutto sembrava solo da godere e ammirare.
Mio figlio, cinque anni appena compiuti, rivolgendosi a me, con aria supplicante, disse:
«Papà, mi connetti?».
Ci vollero diverse domande prima di capire cosa intendesse. In attesa di iniziare la prima elementare, era con i suoi genitori, in mezzo alla natura e con il mare negli occhi. Cosa poteva desiderare di più?
Mentre mi sentivo in pieno contatto con tutte le espressioni del mondo, qualcosa, evidentemente, mancava a mio figlio per percepirsi completamente immerso nella realtà.
Aveva bisogno della connessione.
Ho intuito, allora, quello che ho compreso appieno poi. Stava nascendo una nuova visione della vita, basata sul sentire degli adolescenti ai tempi del post superfluo: niente è più necessario. Tutto è raggiungibile. A qualsiasi età.
Le domande piene di curiosità che i bambini facevano, sino a pochi anni fa, ora sono a portata di click. Il papà eroe, con le sue risposte formative, non serve più.
Basta chiedere a Google.

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I nostri figli, cresciuti con un video di fronte e noi dall’altra parte, non riescono a fare a meno del web. Siamo spettatori passivi di una nuova realtà, da noi difficile da comprendere e accettare in quanto genitori nati nel secolo scorso. Se non ci sforziamo, però, di trovare un punto d’incontro, rischiamo di perdere la connessione con una generazione che sceglie modelli e miti dai nuovi media.
Quella terrazza, così incantevole, sospesa tra mare e monti, per i ragazzi di oggi non è altro che un posto come un altro dal quale connettersi, incollarsi a un video e perdersi in un virtuale privo di riferimenti spazio-temporali. La realtà nella quale noi genitori, immigrati digitali e figli degli anni precedenti siamo cresciuti, è stata soppiantata da un mondo che isola e annulla i contatti.
Che cosa fare? Quale futuro ci attende? Quale risposta dare al figlio che chiede di essere connesso?
Appare necessaria una riflessione profonda sulla deriva online che ci ha travolti.
E quel giorno, una risposta l’ho trovata. Ho guardato l’orizzonte, alle spalle del mio bambino, con un solo pensiero: riprendiamoci la vita dei nostri ragazzi.
Questa breve trattazione nasce come lettera di un padre molto preoccupato proprio per le relazioni, per lo più digitali, del figlio. Cercherò di sostenere e argomentare la necessità delle relazioni da tripla AAA anche per i rapporti umani. Non parlo di parametri astratti, ma di peculiarità da corrispondere reciprocamente:
 

ACCOGLIENZA, ATTENZIONE, ASCOLTO.

ACCOGLIENZA.


LA CURIOSITÀ  DI CONOSCERE
è il più grande dono che puoi fare a un’altra persona.
Denis Waitley

ATTENZIONE.
LA SORPRESA DELLA SCOPERTA
 il coraggio è anche quello che ci vuole per sedersi
Sir Winston Churchill

ASCOLTO.
IL GENIO DELLA LAMPADA.
Molte persone non ascoltano mai.
Ernest Hemingway

 

Tre gambe di un tavolo relazionale fondamentali, in egual misura, affinché la struttura si sostenga. Basta che manchi una delle caratteristiche, per compromettere la relazione e far decadere la possibilità di entrare in contatto con sé stessi e con l’altro.

Oggi più che mai, infatti, c’è l’esigenza di riprendere a valutare, proporre ed esigere una reciprocità dei legami. Ogni settore della vita quotidiana si basa sulla richiesta e sulla verifica di questo schema.

Prima di entrare in relazione con un altro soggetto, infatti, l’unico modo di conoscerne l’affidabilità è chiedere una valutazione. I partecipanti alle contrattazioni economiche vagliano sempre il rating del contraente, la sua stabilità e il suo valore. Non sono solo le società e le banche ad adottare questo sistema di verifica. Ognuno di noi, prima di impegnarsi in un rapporto, analizza alcuni dati. Sono fasi necessarie, per stabilire una relazione da tripla AAA.

Prendiamo in considerazione il mondo della finanza. Prima di impegnarsi in un’avventura con un altro soggetto, qualunque ente compie un’analisi approfondita basata su: la relazione (Accoglienza), la raccolta di informazioni e lo studio del materiale collezionato (Attenzione).

I manager, poi, si incontrano e indicono riunioni (Ascolto). Al termine esprimono un giudizio sull’affidabilità del soggetto (l’altro). Il livello di rischio previsto per la relazione appena instaurata è definito con un voto espresso in lettere. Procedendo così, per gradi, chi richiede la valutazione arriva alla decisione finale e stabilisce se entrare in gioco e investire risorse.

Le relazioni sociali possono essere considerate con gli stessi parametri. Le tre AAA rappresentano una serie di atteggiamenti che, se assicurati in maniera costante, accrescono la qualità di ogni rapporto umano.

L’Accoglienza, l’Attenzione e l’Ascolto sono fondamentali per riportare le nuove generazioni offline e convincerle a togliere lo sguardo dallo schermo.

La rivelazione di un mondo emozionale, in cui il contatto con l’altro rappresenta un regalo, è l’unica speranza per restituire valore alla vita e ai rapporti interpersonali.

Scrivo questi pensieri, quindi, alla pari di un appello a mio figlio affinché inverta la rotta e riemerga da una caverna che non è più quella del mito di Platone[1], ma il buio e solitario antro del mondo virtuale. Mi auguro che ricominci a immergersi, attraverso tutti e cinque i sensi, nella realtà che noi figli degli anni pre-connessione abbiamo vissuto, per fortuna, appieno.

  

 

Ascoltare senza pregiudizi o distrazioni

 

L’Accoglienza è una predisposizione esistenziale verso una coraggiosa e fiduciosa disponibilità a essere invasi dall’altro. Il verbo invadere rende appieno il sentimento della paura, che, più di ogni altra emozione, mette in una posizione di sospetto e rifiuto nei confronti del prossimo.

Accogliere, però, implica il concetto di ricevere e far entrare nel nostro mondo qualcuno. La stessa matrice linguistica della parola ne esalta il concetto. Accolligere deriva da colligere, cioè da cogliere. La radice legere può essere tradotta anche come radunare, mettere insieme, ridurre gli spazi e le distanze o capire e afferrare il senso.

Non è un caso che il verbo leggere abbia la stessa etimologia.

Chiaramente la prospettiva diventa mettersi in gioco. Ci si spalanca verso l’altro per formare un tutt’uno con lui e poi tornare a essere, dopo l’esperienza condivisa, due persone diverse e più ricche di prima.

Se immaginiamo gli esseri umani come isole, possiamo intendere l’Accoglienza come la costruzione di ponti eretti sulla reciprocità di sentimenti, atteggiamenti e opinioni.

Ponti sostenuti e consolidati solo se accettiamo di liberarci da giudizi e valutazioni.

È solo dalla fatica e dal dolore dell’esperienza, infatti, che si può generare l’energia necessaria per attivare un processo di trasformazione.

Ognuno deve compiere uno sforzo, come quello di aprire la porta di casa a uno sconosciuto. Per farlo bisogna superare le proprie paure. Per conoscere, scoprire e, quindi, fare progressi è necessario predisporsi all’altro con la più preziosa delle qualità umane: la curiosità. Non bisogna fermarsi alla prima impressione o a sensazioni che ci invadono durante la conoscenza.

L’Accoglienza si valorizza quando l’incontro con l’altro è connotato dal desiderio di ricevere, dall’atteggiamento empatico. La ricchezza del confronto, così, mette in luce anche aspetti finora inesplorati della nostra anima.

Si tratta di un processo inverso a quello che stiamo vivendo oggi. Come un artigiano che, lavorando il legno, toglie le parti in eccesso per valorizzare la sua scultura, noi stessi dobbiamo tornare alla purezza, sottraendo il superfluo.

È necessario, insomma, dedicarsi alle relazioni reali. Vissute occhi negli occhi.

 

Il coraggio è quello che ci vuole per alzarsi e parlare;

ed ascoltare.

 Non basta accogliere l’altro. Per creare un rapporto autentico, bisogna anche sintonizzarsi sulle sue parole, dimenticando, almeno per un po’, noi stessi.

Proprio come quando cerchiamo una stazione radio, ci vuole impegno per trovare, salvare e far risuonare le onde di chi ci parla. Le sfumature da cogliere sono molte: emozionali, verbali, espressive.

L’Attenzione, però, è anche qualcosa di più. Il vocabolo proviene dal latino attentio che, a sua volta, deriva dal verbo attendere, nel senso di applicarsi a fare qualcosa, svolgere un compito.

Il concetto di Attenzione, tuttavia, racchiude quello di sorpresa. Si attiva quando qualcosa stravolge l’ordinario, costringendoci a mettere in atto lo sforzo di capire.

Quotidianamente, infatti, riceviamo un numero elevato di impulsi e stimoli. Ancor di più ne percepiamo quando navighiamo sul web. Il cervello applica una sorta di filtro che seleziona, in base all’importanza, le informazioni sulle quali concentrarsi. Il bombardamento di stimoli ricevuti sui social, tra notifiche, messaggi e conversazioni, annulla questa scala di precedenza. Tutto va fruito subito e richiede la nostra Attenzione.

L’effetto sorpresa, però, funziona anche in questo flusso continuo di informazioni. Qualcosa di nuovo e inaspettato catalizza l’Attenzione. Sempre.

Nonostante, quindi, anche online esistano l’Accoglienza e l’Attenzione, manca l’ultima A: quella che determina la vera essenza della qualità di ogni relazione umana.

 

Amo ascoltare. Ho imparato un gran numero di cose ascoltando attentamente.

 Anche l’Ascolto è attivato dalla curiosità. Una vera e propria ricerca del senso del linguaggio altrui. Come se ogni nostra conversazione iniziasse con «fammi capire meglio, per favore». In questo modo, accettiamo un tacito accordo con l’interlocutore finalizzato al chiarimento reciproco.

La conversazione con l’altro diventa, così, la dimostrazione dell’interesse verso il significato della comunicazione. A rafforzare questo processo c’è la certezza che più comprendiamo, più ci arricchiamo.

La tensione a capire l’altro, infatti, è un processo a catena di risposte in grado di svelarci parti inespresse di noi.

Emblemi nella cultura popolare sono lo Specchio delle Brame[2], come e soprattutto il racconto de Le mille e una notteAladino e la lampada meravigliosa[3]. L’oggetto e il protagonista sembrano dire che, nella profonda comprensione di ciò che sognano le persone, c’è già la realizzazione del desiderio. Con il rispettivo riflesso e sortilegio, si mette esclusivamente in atto l’Ascolto di queste richieste.


Caro Giovanni

stamattina in classe alcune mie alunne hanno presentato il libro "Papà mi connetti?" ai compagni, attraverso un lavoro multimediale ben costruito. 

Eh, sì, non ci siamo più sentiti, ma ne approfitto per comunicarle che ho apprezzato la pubblicazione e consigliato la lettura ai ragazzi i quali, durante la pausa natalizia, hanno acquistato una quindicina di copie su Amazon. Perché fossero spronati a leggerlo, ho detto loro che avrebbero potuto sostenere una verifica orale sulle tematiche trattate che ben si inseriscono nel programma di educazione civica (Area Cittadinanza Digitale). 

Stamattina dunque abbiamo parlato di lei, dedicando due ore di lezione ai contenuti del libro, in particolare, alle patologie da connessione.

Convinta di farle cosa gradita, ho ritenuto doveroso comunicarglielo. 

Un saluto, Pia

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